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GIORGIO CASTRIOTA SCANDERBEG!!!, LA STORIA

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view post Posted on 16/9/2008, 11:44     +1   -1
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GIORGIO CASTRIOTA SCANDERBEG


Sarebbe dispersivo soffermarsi sulle vere origini e indagare in modo analitico le cause che crearono una tale congiuntura storica dei fatti da dare al principe Giorgio Castriota, detto Scanderbeg (in albanese Gjergj Kastriot Skënderbeu) la possibilità di riconquistare il principato paterno occupato dal sultano Murad II, riconvertirsi al cattolicesimo dopo essere stato cresciuto da mussulmano alla corte del sultano e aver servito come comandante di cavalleria, riunire in una lega tutti i signori, principi e capitani albanesi (impresa non riuscita mai a nessuno né prima, né dopo fino al 1912) e resistere dal 1443 al 1468 agli attacchi ottomani vincendo una trentina di battaglie e respingendo tre assedi della sua capitale in ciascuno dei quali non furono impiegati meno di centomila uomini capeggiati dal sultano in persona.
Sta di fatto che tali cose avvennero e mettono in mostra a posteriori almeno due aspetti. La certezza, oggi non da tutti condivisa, dell'esistenza di un popolo tra i greci e gli slavi, che non era greco e tanto meno slavo e che tale non era considerato in primo luogo; la forte coscienza che questo popolo raggiunse della sua unità, soprattutto nella fede, in secondo luogo.

Le fonti principali, tali perché scritte a poco tempo dalla morte di Scanderbeg da persone spesso ragionevolmente considerabili testimoni dei fatti, sono:

HISTORIA SCANDERBEGI, EDITA PER QUENDAM ALBANENSEM. Pubblicata a Venezia per la prima volta il 2 aprile 1480 da un Anonimo. L'originale latino è andato perso. Abbiamo però la traduzione in italiano di Gianmaria Biemmi, prete, pubblicata per la prima volta a Brescia nel 1742. Biemmi, basandosi quasi esclusivamente su tale scritto, scrisse nel 1756 la sua ISTORIA DI GIORGIO CASTRIOTO, DETTO: SCANDER-BEGH. E' sempre Biemmi a dirci che l'autore albanese anonimo era originario di Antivari e lo chiama Antivarino. Biemmi ci dice anche che chi scrisse tale opera riporta anche particolari dalle battaglie in cui era impegnato Scanderbeg, basandosi sulle dettagliate descrizioni che ne faceva il fratello, ufficiale della guardia del principe albanese.

Questo Anonimo "Discendea dalla casa Angeli che una volta godea la signoria di Antivari: cosi riferisce l'Antivarino" dice Biemmi (Libro II, pag. 126, nota 1). Ora, in un suo saggio del 1866, il Dr. Jakob Philipp Fallmerayer (DAS ALBANESISCHE ELEMENT IN GRIECH ENLAND, Monaco, 1866) individua nell'anonimo Paolo Angelo (in albanese Pal Ëngjëll), figlio del conte Andrea Angelo, la cui casa aveva regnato su Antivari e che aveva un fratello ufficiale nella guardia di Giorgio Castriota. E' un personaggio molto importante (legato del Papa presso Scanderbeg e, in pratica, segretario personale del principe e suo "ministro degli esteri"), tanto da essere considerato il braccio diplomatico del Castriota. La notizia decisiva sul fratello Fallmerayer la trova in HISTORIA DE VITA ED GESTIS SCANDERBEGI, EPIROTARUM PRINCIPIS, scritto da padre Marin Barleti a Venezia ed ivi pubblicata per la prima volta nel 1504.
Egli è certamente un testimone oculare e ci descrive le battaglie più importanti. Scritto in un latino ben diverso da quello lineare e asciutto, da erudito storiografo di Biemmi, quella di Barleti è un'opera che ha avuto gran fortuna come unica fonte autorevole in materia fino a quando, alla fine del secolo XIX, Julius Ernst Pisko (Scanderbeg, HISTORISCHE STUDIE, Wien, 1894) riscoprì l'Antivarino rivalutando Biemmi. Quella di Barleti è indubbiamente idealizzata come storia. E' la fonte più antica che abbiamo dopo le cronache. E' qui che è contenuta la narrazione della famosa legenda dei primi anni del giovane principe e della sua presa di Kruja, la capitale del principato paterno. Proseguendo sulla linea delle fonti più antiche abbiamo:

"GLI ILLUSTRI E GLORIOSI GESTI E VITTORIOSE IMPRESE,
FATTE CONTRA TURCHI, DAL SIGNOR DON GIORGIO CASTRIOTO,
DETTO SCANDERBEG, PRENCIPIE D'EPIRRO"
di un Anonimo che si basa sul manoscritto di padre Demetrio Franco, tesoriere di Scanderbeg, pubblicato anonimo per la prima volta a Venezia nel 1545.

HISTORIA E GENEALOGIA DELLA CASA MUSACHIO SCRITTA DA GIOVANNI MUSACHIO, DESPOTO D'EPIRO, A SUOI FIGLI NEL 1510.
Compagno d'arme di Scanderbeg, signore di grandissima parte del sud Albania e di antichissima famiglia, Giovanni Musacchio continuò la lotta appoggiato da Venezia e Napoli fino alla caduta di Scutari, ultima fortezza albanese conquistata dai turchi nel 1478, per poi riparare a Napoli. L'opera è ad uso dei suoi figli, ma ci porta una serie di notizie importantissime sulle modeste origini dei Castriota e sulle loro conquiste in breve tempo, cosa sulla quale Musacchio insiste sempre, per rilevare la differenza con il suo casato. Il manoscritto è stato scoperto e pubblicato per la prima volta nel 1873 da Karl Hopf nelle sue CHRONIQUES GRECO-ROMANES.

I FATTI ILLUSTRI DEL SIGNOR GIORGIO SCANDERBEG di un Anonimo,
di cui non si sa assolutamente nulla, sennonché la sua anteriorità al 1564, anno nel quale Francesco Sansovino lo riprese nella sua HISTORIA UNIVERSALE DELL'ORIGINE ET IMPERIO DE TURCI.
Gli archivi del Vaticano, della Serenissima, di Ragusa, del Ducato di Milano, del Ducato di Borgogna, con i quali aveva relazioni diplomatiche l'Albania al tempo dei Castriota contengono la sua fitta corrispondenza. Abbiamo anche le cronache dei diplomatici e uomini di stato dell'allora agonizzante impero d'Oriente, Phrantzes e Laonicus Chalcocondylas. (CORPUS SCRIPTORUM HISTORIAE BYZANINAE, Bonn, pubblicati per la prima volta nel 1843, di cui si trova fortunatamente una copia nella Biblioteca di Lettere e Giurisprudenza della Università degli Studi di Milano) .

Per quanto riguarda le indicazioni bibliografiche che riguardino studi fatti sull'Albania dell'epoca di Scanderbeg e sue biografie esse soccombono tutte nei confronti di quelle già citate degli studiosi ottocenteschi qua sopra e nei confronti della biografia GEORGE CASTRIOTI SCANDERBEG, by Bishop Fan Stylian Noli, International University Press, New York, 1947, riscritta in varie edizioni in albanese con notevoli aggiunte prima e dopo. Noli è stato il primate della Chiesa Ortodossa Autocefala Albanese, statista e grande patriota albanese della prima metà del sec. XX. Quanto è stato scritto dopo il 1947 non mi sembra debba essere preso in considerazione. Quello che veniva scritto in Albania doveva passare attraverso le maglie di una rigida e bieca censura operata da uno dei più feroci dittature comuniste del secolo.
Non bastava che l'opera non contenesse elementi nocivi alla dottrina socialista, ma doveva essere allineata con la linea storiografica del potere. Le conseguenze sull'imparzialità e obbiettività delle opere storiche sono facilmente immaginabili. Le fonti presenti in Albania subirono un filtro dettato dalla medesima ideologia e non potevano costituire altro per eventuali volenterosi e ben animati storiografi di altri paesi se non una fonte inquinata e inaccessibile. La purezza delle fonti è minata anche negli altri paesi balcanici confinanti per la semplice ragione che nei secoli l'inimicizia e l'odio etnico tra questi popoli ha portato ognuno di essi a tentare di giustificare storicamente le proprie pretese senza molto badare alla necessità di obiettività storiografica.

I parte

Quando parliamo di Albania riferendoci al Quattrocento non dobbiamo commettere l'errore di pensare che si tratti di un piccolo paese come quello che troviamo oggi a sud-est dell'Italia. L'Albania del Quattrocento, premesso che non parliamo di una entità geopolitica nazionale nel senso odierno, sono tutte le terre abitate da albanesi, le quali però non sempre avevano a capo degli albanesi e di cui l'Albania dei giorni nostri è solo il venti percento circa come estensione. Sembra utile, prima di proseguire, dare anche una breve collocazione storica agli albanesi tentando di stabilire la loro identità. Essi sono i discendenti, sicuramente con influssi non determinanti, ma importanti, slavi, greci e romani, delle antiche tribù illiriche che popolavano prima delle invasioni barbariche quella parte dei Balcani dove non c'erano ne greci, ne daci, ne macedoni, cioè in linea di massima le odierne Jugoslavia, Croazia, Slovenia, Bosnia Erzegovina, Macedonia e Albania. Con l'invasione slava, i mille anni che separano la fine dell'antichità dall'epopea di Scanderbeg sono la tragica storia della via all'estinzione di un popolo, di un ceppo etnico autoctono. Comunque, nel Quattrocento abbiamo un Albania certamente più grande e più forte di quella odierna che si accinge ad affrontare una delle prove più dure della storia, l'invasione ottomana, sotto la guida di un principe dai tratti quasi leggendari.

La prima cosa che stupisce di questo periodo è la riscoperta del cattolicesimo come fattore d'unità per un popolo frazionato e mai davvero unito. Un fattore ineliminabile se si vuole dare appieno ragione della capacità di resistere che caratterizzò gli albanesi di quel periodo. Capacità che si fondava sull'unità. In un paio di momenti, come si vedrà, l'azione del Papa sarà determinante per l'affermazione di questa unità.
La seconda è la straordinaria abilità del principe che guidò gli albanesi in guerra. Forgiato alla scuola di guerra delle gerarchie militari ottomane sin da piccolo, fu in grado d'inventare e applicare per primo strategie che nel corso della storia avranno molta fortuna, diventando il più grande condottiero mai esistito che abbia guidato un piccolo esercito difensivo.

Giorgio Castriota Scanderbeg nacque a Kruja (oggi nell'Albania centrale), probabilmente nel 1412, da Giovanni (Gjon) Castriota e Voissava Tripalda. Suo padre possedeva in origine solamente due piccoli villaggi, da cui probabilmente lo stemma di famiglia con l'aquila nera a due teste, anche se di questa si possono fornire diverse interpretazioni. In breve tempo Giovanni Castriota riuscì ad espandere le sue terre a tal punto da diventare il signore incontestato dell'Albania Centrale, con un potere tale da renderlo competitivo con i vecchi signori del paese: i Balsha, feudatari di Stefano Dushan, poi, fino alla fine del secolo XIV, signori di tutta l'odierna Albania - con la sola esclusione di una piccola parte del sud di essa appartenente al despotato di Narta, dominato a sua volta dalla famiglia albanese degli Shpata, i cui domini si estendevano a loro volta quasi fino a Salonicco -, di metà dell'odierna Macedonia, del Kossovo e di gran parte dell'odierno Montenegro, per arrivare fino a Selenica, comprendendo in tal modo una parte in meridione della Bosnia odierna; i Comneno di Argirocastro e Valona, imparentati in linea maschile con i Comneno di Costantinopoli (per il resto il cognome Comneno lo troviamo in quasi tutte le famiglie nobili albanesi dell'epoca con l'unica eccezione forse dei Dukagjini e dei Castriota); i Musacchio con le origini che affondavano nel X secolo; i Thopia, altro ramo dei Comneno; i Korona, signori di Perati, partigiani delle prime crociate; i Dukagjini, grandi signori montanari del nord del paese e dell'intero Kossovo e altri.

Non solo, ma entrò inevitabilmente in contrasto anche, in varie fasi, con Venezia, che possedeva le maggiori, più antiche e più sviluppate città costiere dell'Albania: Durazzo, Alessio (Lezhë), Scutari e altre.
Voissava diede a Giovanni Castriota cinque figlie - Mara, poi sposa di Stefan Çernoviç, principe del Montenegro; Vlajka, poi sposa di Gjin(Gino) Musacchio; Angjelina (Angelina), poi sposa di Vladan Arianit Comneno Thopia; Jella, poi sposa di Pal [Paolo] Stres Balsha; Mamica, poi sposa di Karol Musacchio Thopia - e quattro figli: Reposh, Stanish (Stanislao), Kostandin (Costantino) e Gjergj (il nostro Giorgio Castriota).

Insisto su tali nomi per due ragioni. Non si può comprendere la vicenda di Scanderbeg senza contestualizzarla in un paese e in un popolo profondamente divisi, che non era mai stato unito sotto un'autorità centrale, pieno di particolarismi e di rivalità. In secondo luogo, perché voglio rendere evidente e menzionare già da ora i nomi di quei principi albanesi che segneranno l'epopea di Scanderbeg come suoi alleati, feudatari, compagni d'arme, generali, traditori e amici.

Tornando a Giovani Castriota, non voglio dilungarmi eccessivamente sulla sua storia. Basti sapere che nel 1407 è menzionato negli archivi di Venezia come "dominus satis potens in partibus Albaniae". Per far fronte ai turchi il principe accetta di diventare vassallo della Serenissima ed avere la sua protezione, poiché unico paese cattolico con lui confinante. Ciononostante, si rifiuta di acconsentire a che dodici chiese delle diocesi albanesi, tutte concentrate nell'Albania centrale che nel periodo da noi esaminato era, appunto, dei Castriota, cadano sotto la giurisdizione del vescovo di Alessio, adducendo a motivo la loro appartenenza da 800 anni ai vescovadi d'Albania. Negli archivi di Venezia si legge riferendosi alle intenzioni di tale vescovo: "Occupare duodecim de ecclesiis episcopatus Albaniae et illas nititur se movere ab ipsu episcopatu Albaniae et unire atque educere sub episcopatu suo". Queste dodici chiese dell'episcopato d'Albania esistevano dal tempo di Giustiniano (che era nato proprio in quelle terre) ed erano state da lui istituite nel sesto secolo, almeno questo è quanto afferma Noli che di questo, differentemente da quasi tutto il resto, non specifica le fonti, forse dandole per scontate.

Il 1407 è l'anno in cui Giovanni Castriota entra in conflitto con i Turchi. La lotta continuerà fino al 1430, anno in cui verrà definitivamente sconfitto. Le clausole della pace che sottoscrive definitivamente sono pesanti. Doveva convertirsi all'islamismo, dare tutti i figli maschi in pegno al sultano (uno di questi poteva però riprendere l'eredità del padre alla morte di lui e il sultano s'impegnava a farli crescere nella loro fede), cedere la strategicamente importantissima regione di Dibra e della sua fortezza di Sfetigrad nel nord dell'Albania (da una cartina qualsiasi dell'Albania si evince la cruciale importanza della regione, giacché era una delle poche vie d'accesso al montagnoso territorio albanese), cedere la capitale Kruja, diventare vassallo del sultano, versargli un tributo e contribuire con un esercito alle guerre del sultano nei Balcani.

In verità, dagli archivi di Venezia, Noli rileva come sia incontestabile che Giorgio era stato dato in pegno già nel 1421, all'età di nove anni insieme a Reposh, il maggiore che era andato a chiudersi più tardi nel monastero del monte Sinai, quindi è probabile che nel '30 venissero dati in pegno Stanislao e Costantino. La prima cosa che fece Murad II fu quella di affidare i pegni a educatori del palazzo, affinché li educassero nell'islam. Evidentemente il sultano non aveva nessuna intenzione di mantenere la sua parola nei confronti del secondogenito Stanislao (erede dei diritti di primogenitura dopo la rinuncia di Reposh) che avrebbe dovuto rimettere sul trono del padre. Questi, essendo già grande, si mostro irrequieto e si permise di pretendere le sue terre al cospetto del sultano alla morte del padre Giovanni. Caso volle che morisse anch'egli poco dopo a causa, secondo quanto racconta Barleti, di avvelenamento da cibo. La stessa fine fece poco tempo dopo Costantino. Giorgio invece era troppo piccolo quando era stato dato in pegno e, evidentemente, troppo furbo per mostrarsi di essere nemico del sultano. Nel trenta, per giunta, era già un comandante di cavalleria famoso e un grande capo carismatico per i suoi uomini.

Viene descritto da Barleti (nel trenta Giorgio aveva solo diciotto anni) come alto, forte, corpo perfettamente scolpito, con i classici tratti somatici della stirpe montanara illirica cui apparteneva la sua famiglia. Si era già messo in mostra in una serie di battaglie in Anatolia e il sultano gli aveva anche affidato la conduzione di una piccola, ma difficile campagna in cui si era particolarmente distinto e che gli aveva fatto meritare il titolo che generò l'appellativo con cui divenne famoso. Fu nominato bey, titolo onorifico militare, volendo tradurre il quale giungiamo a "il grande", "magno" e corrisponde grossomodo per quanto riguarda i privilegi all'interno della casta militare all'occidentale "maresciallo". Abbiamo già detto che il sultano non aveva alcuna intenzione di rispettare la parola data a Giovanni Castriota di crescere i figli di questi fuori dalla Dar el Islam, nella fede cattolica cui un tempo era appartenuto il padre. La prima cosa che fece fu quello di cambiare il nome Giorgio in Iscander (Skëndér). Questa sarebbe, secondo Barleti, l'origine di Iscander - bey, Scanderbeg. Non avendo altre indicazioni sull'origine del nome e non trovando origine etimologiche più convincenti dobbiamo affidarci per forza a Barleti e cercare di trovare il fondo di verità della sua leggenda.

La legenda di Barleti racconta anche di come, quando il sultano gli chiese se avrebbe fatto bene ad annettere il principato dei Castriota e darlo in feudo ad un pascià, Giorgio rispose umilmente che lui voleva solo combattere per il suo sultano. Effettivamente, Murad II lo trattava come un figlio, lo colmava di onori e lo teneva sempre presso di sé, credendo che il principe albanese non lo avrebbe mai tradito e che fosse diventato a questo punto un vero turco. Non mi stancherò mai di far rilevare come queste notizie siano suffragate solamente da Barleti e da qualche cronico turco indirettamente, mentre di esse non troviamo traccia nelle altre trattazioni.
Comunque, rimane incontestabile il fatto che Scanderbeg stette al gioco a tal punto che il sultano si fidò sempre più di lui. Già prima questo era avvenuto, ma dopo il trenta il Castriota venne impiegato nei Balcani sempre più, tanto che vi sono vari documenti e lettere scritte da rappresentanti della Serenissima a Giovanni Castriota, in cui si chiede di usare l'autorità paterna a distogliere il figlio dalle scorrerie nelle terre della Repubblica.

Tra il 1435 e il 1438 si assiste ad una grande rivolta nel sud Albania comandata da Arianit Comnen Thopia, futuro genero di Scanderbeg. I rivoltosi ebbero alcune vittorie, ma vennero definitivamente sconfitti nel '38 e la rivolta fini nel sangue. I turchi fecero piramidi di teste di rivoltosi, gettandone altre ai bambini di Adrianopoli perché vi giocassero e i principi prigionieri vennero uccisi rompendo essi le ossa con un martello. Anche il nord cominciò ad attivarsi, ma mancava di un capo. Giovanni Castriota era vecchio e Giorgio per il momento non ne volle sapere delle suppliche dei suoi futuri sudditi. Effettivamente un'impressa del genere era da escludere in quel momento. Le guarnigioni turche in Albania erano troppo forti e nessuno era riuscito ad espugnarne le fortezze. La rivolta intesa come immediata e diretta contrapposizione militare al sultano non aveva futuro e Scanderbeg lo sapeva bene per la semplice ragione che era lui uno di quelli che conoscevano meglio le potenzialità dell'esercito ottomano. Va notato anche che gli albanesi avevano sempre dimostrato fino a quel momento storico e dimostreranno di seguito a più riprese la loro pressoché totale incapacità di assediare fortezze e di condurre una guerra offensiva in grande stile. Tanto che in una lettera, che da principe scriverà al suo alleato Alfonso di Napoli, Scanderbeg dirà che i suoi uomini possono tutto contro i soldati, ma nulla contro le mura.

Nel 1442 morì Giovanni Castriota. Barleti, Il principato passò a Hassàn Bey Versdesa, un rinnegato albanese per firmàn (editto) del sultano. A questo punto si doveva tentare il tutto per tutto alla prima occasione, poiché le intenzioni del sultano erano chiare. Questa venne nel 1443. Giorgio Brankoviç di Serbia chiese aiuto al Papa Eugenio IV contro i turchi per riconquistare il suo regno. Eugenio IV mandò il cardinal Iuliani e convinse ad impegnarsi Ladislao III di Ungheria e Polonia, il quale a sua volta inviò in aiuto del re (krajl) di Serbia un esercito di diecimila ungheresi al comando di Janko Hunyadi, vojvoda di Transilvania e feudatario di Ladislao. Questi si accampò nei pressi di Nish, in Kossovo, attendendo l'aiuto del serbo e di Iuliani. Murad II inviò immediatamente Kara bey con ventimila uomini per sconfiggerlo singolarmente, prima che l'esercito cristiano si fosse riunito. L'ala sinistra dell'esercito turco era nelle mani di Scanderbeg e della sua cavalleria, tra cui spiccava l'elite di trecento cavalieri provenienti dal principato dei Castriota e comandati da Hamza Castriota, figlio di Reposh, il fratello maggiore di Giorgio, e di una donna turca. Hamza diventerà uno dei più importanti generali di Scanderbeg.

I due eserciti si schierarono sulle sponde del fiume Morava nei pressi di Nish. Ritenendo fatale per se l'iniziativa turca, Hunyadi varcò in fretta il fiume con i suoi diecimila e si riversò temerariamente sui turchi, i quali, presi di sorpresa, iniziarono la fuga dopo pochi combattimenti. Quando però Kara Bey si rese conto dell'esiguo numero degli ungheresi diede l'ordine di riordinare le fila e resistere. Sennonché l'ala sinistra continuò la fuga ignorando l'ordine. Anzi, Scanderbeg spingeva i turchi a mettersi al riparo più in fretta. La rotta coinvolse di nuovo tutto l'esercito e la battaglia si trasformò in una disfatta. Gli ungheresi vincevano, Kara bey fuggiva verso Adrianopoli, mentre Scanderbeg, catturato un cancelliere dell'esercito con il sigillo del sultano, muoveva verso Kruja e il principato paterno. Non fu difficile costringere il cancelliere a dare un firmàn col sigillo del sultano che concedesse a titolo di vassallo l'Albania a Giorgio Castriota Scanderbeg. Eliminato il cancelliere, scortato dai trecento fedelissimi di Hamza, Scanderbeg andò prima a Dibra, importante città del nord-est del suo principato, posta proprio all'ingesso della pianura di Mat, il cuore dei domini dei Castriota. Con l'aiuto dei suoi e di trecento dibrani mosse verso Kruja sempre di notte e sempre senza dare nell'occhio. Giuntovi in fretta, incontrò Hassàn Bey e gli consegnò il firmàn del sultano. Questi gli cedette in buona fede il comando della fortezza e del principato paterno.

Non c'era tempo e bisognava agire in fretta prima che si intuisse il raggiro. La stessa notte il vessillo con la mezzaluna venne sostituto con l'aquila a due teste nera in campo rosso, vessillo dei Castriota: "Rubea vexilla nigris et bicipitibus distincta aqulis gerebat Scanderbeg" (Barleti). I capipopolo capirono e come dice Barleti: "Libertas in omnium erat ore. Libertatis dulce nomen undique resonabat". Il mattino seguente non era rimasto piede di turco in città, tranne quelli che si erano convertiti al cristianesimo. Tutto questo avvenne "gridandosi per tutto viva Scanderbeg" (Anonimo ripreso da Sansovino).
Il mattino seguente "Scanderbeg si fé subito cristiano", come dice Musacchio. Poco tempo dopo, il 28 novembre 1443, venne incoronato principe d'Albania nella cattedrale di Kruja. Uscendo dalla chiesa si dice abbia tenuto questo discorso ai soldati e al popolo riunito, che ci riporta Barleti:

"Capitani e valorosi soldati: non è ne nuova ne inattesa la vista che mi si presenta innanzi. Come vi portavo in mente, così vi trovo oggi, semplici discendenti di una razza antica e generosa, intrepidi e pieni di una fede inamovibile nella vostra patria. Sono anche felice ora che posso aprire il mio cuore. Vi dico senza vanto che per quanto ho vissuto, ho portato in petto il vostro ricordo misto al grande amore per la libertà. Quando mi chiamaste per quest'opera dal servizio del sultano, portavo nel cuore il vostro stesso desiderio. Avrete forse pensato che avessi dimenticato voi e la mia patria, l'onore, la libertà, quando vi mandavo via tristi e delusi, senza alcuna speranza e senza mostrare un briciolo di sentimenti nobili e generosi. Ero tale perché lo richiedeva la vostra salvezza e la mia, perché le cose erano tali che bisognava fare e non dire, poiché vedevo che avevate più bisogno di freno che di sproni. (...) Mio nipote Hamza parla per me; è stato il mio braccio, il mio consigliere, il mio compagno d'arme e con pochi altri ha fatto con me quest'impresa, ma anche con questo non ho mai detto loro una sola parola di libertà, onore e patria fino alla battaglia di Nish.
La libertà la potevate conquistare col vostro valore e con un altro liberatore, ché all'Albania non mancano gli uomini, ma vi piacque attenderla dalle mie mani, forse tardi, ma è chiaro che così volle il Signore. Eppure sono stupito a vedere che uomini siffatti, superbi come voi siete, cresciuti liberi, abbiano sopportato tanto a lungo il giogo dei barbari, solo per attendere me giungere un giorno a guidarvi. Ma merito forse io questo bel titolo di liberatore che avete graziosamente donato? Non fui io a portarvi la libertà, ma la trovai qui, in mezzo a voi. Non appena misi piede qui, non appena avete udito il mio nome, siete tutti accorsi, di fronte a me, come se aveste fatto resuscitare i fratelli e i vostri padri, come se fosse sceso dal cielo Dio in persona. Mi avete accolto con tali affetto e gioia, mi avete reso servizi tanto validi e numerosi, che ora sono stato io reso più servo che voi liberi. Questa fortezza e questa città non ve l'o data io, ma l'avete donata voi a me; le armi non ve le cinsi io, vi trovai già armati; la libertà l'avevate ovunque, nel petto, sulla fronte, nella spada e sugli scudi: come fedeli guardiani, nominati da mio padre, voi avete posto sul mio capo questa corona, mi avete dato questa spada, mi avete creato signore di questo principato, che avete custodito con tanta fede, cura e fatiche. Portatemi ora, con l'aiuto di Dio, a liberare tutta l'Albania.
(...)
Alzate dunque il vessillo in testa e mostratevi uomini come sempre. Dio, come finora , così nel futuro verrà in nostro soccorso e ci darà il modo di farci onore!"
Non fu difficile sottomettere le altre fortezze paterne: Petrela, Pietralba, Stellush, Tornaç si arresero con la condizione che alle loro guarigioni si sarebbe permesso di andarsene illese. Solo la più importante, Sfetigrad, resistette e Scanderbeg affidò il compito di assediarla a Mosè di Dibra con quattromila uomini. Il suo vero nome era Mosè Golem Thopia Comneno. Dato che Scanderbeg gli diede in feudo Dibra e la sua regione, di fondamentale importanza strategica, egli divenne famoso come Mosè di Dibra e con questo nome si conquistò la fama combattendo come il miglior compagno d'arme di Scanderbeg. Hamza Castriota, Mosè di Dibra e Tanush (Tanuccio) Thopia saranno i tre grandi compagni d'arme e comandanti dell'esercito di Scanderbeg. Oltre a questi bisogna menzionare Vrana Conti, marchese di Tripalda (alcuni lo chiamano Conte Urana, che aveva combattuto al comando di Alfonso V d'Aragona e aveva una lunga esperienza di guerra contro i mori) e Vladan Gurizza, i due consiglieri del principe e le persone a lui più fidate. Gli ultimi da menzionare sono Paolo Angelo, futuro Arcivescovo di Durazzo e cardinale, grande amico, consigliere, segretario e, in pratica, ministro degli esteri del principe e padre Demetrio Franco, il suo tesoriere.

Con l'aiuto della Repubblica di Venezia, Scanderbeg convocò tutti i principi albanesi ad Alessio per formarne una lega con un comune esercito e combattere a oltranza il sultano. I principi più importanti, oltre a Castriota, erano Arianit Comneno, signore di Valona e della gran parte del sud del paese (quella che si chiama Toskëria); Paolo Dukagjini, signore di Vulpiana e di una regione molto vasta al nord, che andava dal fiume Drina al confine con la Serbia includendo il Kossovo e Stefano Çernoviç, signore del Montenegro. Egli certamente non era albanese, ma la maggioranza dei suoi sudditi si. Storicamente la sua famiglia era alleata dei Castriota. Gli altri erano un'innumerevole compagine di nobilotti i cui cognomi sono pressappoco un miscuglio tra quelli che ho menzionato all'inizio, l'insieme dei possedimenti dei quali erano una serie di piccole cittadelle circondate dal contado relativo.

Si formò un esercito in grado di essere mobilitato velocemente di 18 mila uomini. I tre quarti provenivano dal principato dei Castriota. Di questi 3.500 costituivano la guardia di Scanderbeg ed erano sempre in armi (mentre gli altri si raccoglievano al momento opportuno). Il Castriota veniva nominato kryekapedan (potremmo tradurlo con "comandante in capo") dell'esercito della Lega e riceveva dai principi, oltre all'appoggio, ai giuramenti di fedeltà e alla promessa di contribuire con più uomini in caso di necessità, 200 mila ducati d'oro l'anno. A questi vanno aggiunti i donativi occasionali degli alleati: Napoli, il Papato, Venezia. Queste cifre le riferisce Noli, ma egli non ci dice le loro fonti.
La Lega fu benedetta apostolicamente e dopo il Te Deum Scanderbeg tornò a Kruja, dove lo attendeva Mosè di Dibra che aveva appena espugnato Sfetigrad.

Il valore di un esercito permanente Scanderbeg l'aveva imparato combattendo per il sultano, dove aveva visto i preziosi servizi dei giannizzeri. Questo corpo, fondato dal Sultano Orhan, era il più temuto e più efficiente del suo tempo. Erano soldati di professione, ma non mercenari. Combattevano per il piacere di farlo e per il loro padre, il sultano, cui davano la loro cieca devozione. Erano, un corpo, una famiglia, avevano la paga più alta, le donne più belle, le prede belliche migliori. E, soprattutto, o non avevano radici o erano membri di famiglie nobili che cercavano la gloria nelle armi. Quasi sempre non avevano famiglia, nessun legame.
La guardia di Scanderbeg imitava questo corpo. Tutti cattolici, del principato di Scanderbeg (i duemila che ne formavano la cavalleria erano della sua capitale, Kruja, e i seicento cavalieri più fedeli e migliori erano di antiche famiglie ben conosciute), con una fede cieca nel comandante e in Dio, votati alla morte, disciplinati fino in fondo. Avevano tutti giurato di non sopravvivere al loro capo, se questi fosse morto in battaglia. I meglio armati, i meglio nutriti, i meglio pagati. Scanderbeg ne conosceva i nomi a memoria. Un èlite cui tutti aspiravano di appartenere.

Murad II mandò un esercito di 25 mila uomini, di cui 15 mila cavalieri, al comando di Alì pascià, il suo migliore generale. Entrarono in Albania dalla parte del Kossovo, dal nord est. Una delle prime misure del principe albanese era stata di creare una schiera di spie militari che aveva distribuito in tutti i nodi di comunicazione tra Adrianolpoli e l'Albania. Per questa ragione sapeva e saprà sempre bene il numero di nemici diretti verso di lui. Dei 18 mila che poteva reclutare immediatamente ne prese 15 mila, di cui 7 mila cavalieri ed accampò a Torvioll, vicino all'odierna Tirana, in una piccola valle di sette miglia per tre circondata da monti coperti di boschi. In questi boschi nascose metà della sua cavalleria, lasciò al campo una piccola parte della sua fanteria e mosse con la guardia verso Ali pascià, attirandolo con delle manovre nel piccolo campo dove aveva deciso di dar battaglia. Vi giunse il 28 giugno 1444 e schierò i suoi. Tanush Thopia a destra con i montanari del Dukagjini e i soldati mandati da Arianit Comneno. A sinistra Mosè di Dibra con i bulgari della Mokrena (regione sotto il dominio dei Castriota) e i montanari del suo feudo. Al centro la guardia con Scanderbeg. Vrana Konti comandava una riserva più arretrata di 3 mila uomini. Altri tremila al comando di Hamza Castriota erano nascosti nei boschi intorno al campo. La superiorità nemica era praticamente annullata dall'angustia del campo. I turchi non potevano circondare l'esercito cristiano.

Era già buio quando gli eserciti si schierarono, così la faccenda finì per essere risolta l'indomani. Quando, alla luce del giorno 25 mila turchi videro 9 mila albanesi di fronte a sè, pensarono che non vi era molto da fare. Scanderbeg aveva schierato squadre di fanteria tra gli squadroni di cavalleria. Ci si attendeva uno scontro principale tra gli uomini a cavallo, seguiti dalla fanteria. E' palese che la totale sproporzione tra le truppe, avrebbe fatto inghiottire i duemilacinquecento cavalieri schierati in prima linea da Scanderbeg da parte dei quindicimila turchi. Da qui la funzione dei fanti con lunghe picche che intervallavano la cavalleria. Bisognava tappare i buchi e non lasciare filtrare troppi cavalieri contro la seconda linea di fanti armati di picche, lunghe spade e asce. Erano i montanari kossovari e krujani cui era affidato questo ruolo pericoloso.

L'intelligenza del principe stava nel fatto che egli ben sapeva, essendo stato compagno d'arme di Alì pascià, che quest'ultimo avrebbe caricato a fondo com'era suo solito con la cavalleria in prima linea. L'ingorgo dei cavalieri fermati anche per poco tempo dai soldati schierati, avrebbe permesso ai cavalieri di Hamza di uscire dai monti e colpire la fanteria nemica a fondo caricando dai lati e dalle spalle. La funzione della riserva era di dare man forte a chi si sarebbe trovato in difficoltà.
L'unico problema era riuscire a contenere l'entusiasmo dei soldati albanesi. Bisognava lanciarsi come un corpo unico contro l'orda nemica, per evitare di dare un ulteriore vantaggio alla sua superiorità nemica. Quindi bisognava caricare solo dopo l'inizio dell'attacco nemico.
Prima della battaglia Scanderbeg fece fare colazione ai suoi uomini. Immaginiamoceli con Barleti un'ora dopo schierati in silenzio guardando fissamente d'avanti, mentre il fragore di trombe e tamburi accompagnati dalle urla di 25 mila uomini segnala l'inizio della carica turca.
Scanderbeg, fattosi il segno della santissima croce gridò forte, ah valorosi, et fedelissimi miei soldati, et fratelli, seguitemi; et così fu il primo ad entrare nella battaglia (Demetrio Franco).

L'esercitò seguì. La battaglia tenne fino alle tre del pomeriggio. Le cose andarono come aveva previsto Castriota. L'impeto turco fu fermato. L'ala destra era in difficoltà inizialmente e Thopia stava per ritirarsi, quando intervenne la cavalleria di Hamza alle spalle degli ottomani. La confusione che ne seguì permise a Thopia aiutato dalla riserva i ricacciare l'ala sinistra turca. Sulla sinistra, Mosè di Dibra, con una carica temeraria mise miracolosamente alla fuga i turchi che aveva di fronte. Vedendo le ali del suo esercito vittoriose, Scanderbeg carico a fondo con la cavalleria della guardia al cuore dell'esercito, dove si trovava Alì pascià, che fuggì senza indugio. Leonum eo die leones ductores fuisse (Barleti). La prima e più incerta prova era superata.

I turchi ebbero 8 mila morti, 2 mila prigionieri, 24 bandiere perse e tutto il loro campo fini nelle mani dei vincitori. Et laureatae litterae ac signa quaendam militaria ad omnes Epiri regulos missa, alia afflixa templi sunt (Barleti).

Incoraggiato dalle vittorie di Hunyadi e di Scanderbeg, Eugenio IV iniziò l'organizzazione di una nuova crociata contro i turchi. Vi avrebbero partecipato Polonia, Ungheria, Venezia, Genova e Bisanzio. Furono invitati anche Scanderbeg e la lega dei principi albanesi, i quali ebbero però qualche tentennamento al momento della decisione di impegnarsi lontano dalle loro terre. L'autorità del principe dopo Torvioll però era tale da averla facilmente vinta sui dubbi.
Murad II, spaventato di preparativi cristiani, chiese la pace agli ungheresi e la ottenne per dieci anni, nonostante le pressioni che faceva su Hunyadi il cardinale Iuliani. Il 12 luglio 1444 essa fu sottoscritta a Szegedin, con le condizioni per il sultano di restituire la Serbia occupata a Giorgio Brankoviç insieme ai figli presi in pegno e l'impegno a non invadere le terre di Scanderbeg. La Porta riconosceva quindi implicitamente il piccolo regno balcanico.

Dopo la firma della pace, Murad II abdicò a favore del figlio Mehmed per ritirarsi in Magnesia a passare gli ultimi anni della sua vita. La pace decennale però durò sei settimane. Iuliani convinse Ladislao di Polonia e Ungheria a rompere il trattato e ad attaccare aprofittando dell'assenza del sultano. Ladislao entrò in Bulgaria con un "fritto misto" di 14 mila tra polacchi, ungheresi e romeni. Mise il campo a Varna e attese che giungessero gli alleati crociati. Scanderbeg s'era impegnato con l'alleato polacco a raggiungerlo e si mise in movimento il 15 ottobre, dopo aver raccolto altri 15 mila uomini insieme alla sua guardia. Vi sarebbe giunto se non avesse trovato il passo sbarrato dal Brankoviç, il quale, non avendo rotto la pace col sultano, non voleva inimicarsi quest'ultimo. Scanderbeg aveva perso tre settimane in trattative quando diede ordine ai suoi di passare comunque, volenti o nolenti i serbi. Si era già inoltrato in Serbia, quando venne a sapere da ungheresi e polacchi fuggiaschi della sconfitta e della morte di Ladislao.

Era accaduto che, avendo sentito della rottura della pace da parte di Ladislao, il sultano si fosse mosso dall'Anatolia con 40 mila uomini, avesse varcato il Bosforo su navi genovesi pagando un ducato a testa per i suoi uomini, avesse preso quartiere a Varna di fronte ai crociati che si erano riuniti quasi tutti. Dopo aver schierato l'esercito con Turhan pascià, beylerbey della Rumelia, a destra e Caragià pascià, beylerbey dell'Anatolia, a sinistra e aver tenuto i giannizzeri al centro con sè, stava per dare l'ordine di carica quando fu preceduto da Hunyadi con i suoi quindicimila, che fecero crollare con il loro coraggioso impeto le ali dei turchi. Il centro barcollava anch'esso e Murad era già in sella pronto a fuggire, fermato solo da Caragià pascià che gli aveva preso il cavallo per le redini, che una pazzia di Ladislao regalò la vittoria ai turchi. Credendo che la giornata fosse sua, caricò con la guardia polacca il centro dell'esercito turco. Circondato dai giannizzeri venne ucciso e la sua testa esposta su di una picca e mostrata ai cristiani. Questi, demoralizzati, non ressero al centro al contrattacco dei giannizzeri e fuggirono. Le ali dell'esercito cristiano vinto caddero da sè.

Circa 10 mila morti cristiani coprivano Varna. Tra di essi il cardinal Iuliani con la spada in mano. Hunyadi fuggì con il resto dei suoi uomini e, varcato il Tuna, fu fatto prigioniero da Vlad III, gospodar (signore) della Moldavia, nominato dai romeni Drakul Cepelush (il Diavolo Macellaio) e dai turchi Kaziklli Voda (il Vojvoda della Forca), che lo lasciò libero solo dopo il pagamento di un pesante riscatto. Insomma, c'era di che essere tristi e contrariati dopo aver perso diecimila uomini mentre si era ad un passo dalla vittoria e aver passato per questo dei mesi da prigioniero di Dracula.
Non avendo nessuno chiesto la pace, Murad II dovette continuare la lotta nei Balcani e non aveva tempo per occuparsi di Scanderbeg. Gli mandò Hajredin Bey con proposte di pace che vennero rifiutate. Per tenerlo sotto controllo venne inviato Firuz pascià con novemila cavalieri. Non dovevano provocare in alcun modo gli albanesi, ma dovevano attenderlo e tendergli qualche imboscata nel momento in cui avesse varcato il confine. Scanderbeg lo affrontò nella pianura della Mokrena, abitata da bulgari, ma sotto il suo dominio, con la sola sua guardia. Lo affrontò il 10 ottobre 1445 in un bosco dove lo aveva spinto con numerose azioni di guerriglia. Gli uomini a cavallo ottomani erano impediti dagli alberi e furono annientati dagli albanesi appiedati che sbucavano da tutti i nascondigli possibili. Lasciando mille e cinquecento morti e mille prigionieri Firuz pascià tornò ad Adrianopoli.

La notizia della battaglia della Mokrena ebbe grande fortuna in Occidente, dove fu accolta come la vendetta di Varna. E fruttò una grande vittoria diplomatica. Alfonso di Napoli ed Eugenio IV inviarono ambasciatori, benedizioni apostoliche e denaro. Un nuovo campione della cristianità.

Nel 1446 toccò a Mustafà pascià e ai suoi 15 mila ad essere sconfitto.....ad opera di 5 mila albanesi il 27 settembre vicino a Dibra e a lasciare sul campo 5 mila morti e trecento feriti con le vettovaglie, le bandiere e l'accampamento.

Il 1447 passò in pace e, secondo tradizione, gli albanesi cominciarono a combattere tra di loro. Lek Dukagjini, figlio di Paolo e suo successore e, quindi, il più grande signore del paese dopo Scanderbeg, uccise Lek Altisferi, signore della piccola striscia di terra di Danja, situata al confine tra i domini di Venezia e del Dukagjini. L'Altisferi lasciava nel testamento i suoi domini a Scanderbeg se non avesse avuto eredi. Ma, né i Dukagjini, né i Castriota riuscirono a prendere Danja, perché i Veneziani furono più veloci facendovi giungere a cavallo una guarnigione da Scutari. Scanderbeg volle far valere i suoi diritti, ma i Veneziani non risposero. Iniziò così la guerra tra Scanderbeg e la Serenissima.
Non avendo mezzi da assedio, gli albanesi tentarono di prendere Danja per fame. Sconfissero nei pressi di Scutari un forte esercito della Serenissima ed assediarono anche questa fortezza. A questo punto un accordo segreto tra Venezia e La Porta ebbe lo scopo di mettere Scanderbeg tra due fuochi, ma l'esercito di 15 mila mandato di nuovo al comando di Mustafà pascià venne sconfitto ancora vicino a Dibra il 14 ottobre 1448, ad Oranico. Mustafà lasciò sul campo altri 5 mila morti, dodici alti ufficiali prigionieri, tutte le bandiere e l'accampamento. Era una fortuna la cattura degli accampamenti e degli alti ufficiali, poiché costituivano due ottime fonti di redito per pagare i soldati.

La vittoria su due fronti accrebbe enormemente la fama e il prestigio del principe. Venezia sbrigò i preliminari per la pace e la ottenne ad Alessio nell'inverno del 1448. Essa conservava Danja, ma concedeva a Scanderbeg una terra più ampia sulle sponde del fiume Drina, 1400 ducati di pensione annui e il rinnovo degli antichi tributi che i mercanti dovevano pagare ai Castriota per il passaggio nelle loro terre. Il nome dei Castriota venne scritto nel Libro d'Oro della Serenissima.
Murad II decise di intervenire di persona in Albania dopo aver ancora sconfitto Hunyadi duramente nella pianura del Kossovo. Centomila uomini, artiglieria d'assedio e armi da fuoco, l'intero corpo dei giannizzeri e il Sultano in persona muovevano verso Kruja.

Un tale esercito doveva colpire una volta per tutte la Lega dei principi albanesi. Per fare questo era necessario che cadesse Scanderbeg. Perché cadesse Scanderbeg era necessario che cadesse Kruja. Perché cadesse Kruja era necessario che cadesse una delle due importanti fortezze che sbarravano l'ingresso alla terra delle aquile: Dibra o Sfetigrad.
Informato per tempo delle intenzioni del sultano, Scanderbeg mandò l'archimandrita Pietro Perlati a Sfetigrad a capo di una guarnigione di duemila uomini e viveri per un anno. Mosè di Dibra rimase a difesa della sua città. A Kruja una guarnigione di 4 mila uomini era comandata da Vrana Conti con viveri per sedici mesi. Tutte le fortezze furono fortificate allo stesso modo. I contadini cominciarono a chiudersi in esse.

Murad II si presentò di fronte a Sfetigrad il 14 maggio 1448 con 80 mila uomini, due obici pesanti che lanciavano proiettili da 200 kg e metallo in sufficienza per fonderne altri. Fu invitato Pietro Perlati ad arrendersi. Al rifiuto iniziò il bombardamento. Dopo tre giorni, aperta una breccia abbastanza ampia, i giannizzeri iniziarono l'attacco generale. Furono massacrati in numero impressionante. Il puzzo dei cadaveri che avevano coperto la breccia si sarebbe sentito per mesi. Nel frattempo, Scanderbeg aveva inaugurato la tecnica di guerriglia con la quale avrebbe combattuto in tutti gli scontri con i sultani fino alla fine. Con dodicimila uomini colpiva all'improvviso, dove meno lo si aspettava. Faceva scorrerie nel campo nemico, tendeva imboscate, catturava chi si allontanava troppo senza scorta. Non lasciava il nemico in pace un momento per poi nascondersi sempre nelle vergini montagne intorno alla fortezza, che coprivano con la loro estensione quasi tutto il paese.

Era la stessa tecnica usata dalle tribù illiriche contro i romani, i bizantini, i greci, i serbi nei secoli. Solo che con il Castriota la sua efficacia fu esaltata a tal punto in una guerra difensiva che, leggendo le sue gesta da fonti turche, il generale James Wolfe poteva scrivere a Thomas Townshend (che più tardi diventerà Lord Sidney) il 18 luglio 1756: " Grandi nozioni d'arte militare si possono trarre dalla vita di Gustavo Adolfo e da quella di Carlo XII di Svezia...; e sarebbe un lavoro irrilevante se non si assicurasse a una sufficiente descrizione delle gesta di Scanderbeg, perché egli risplende tra i grandi generali dei tempi passati e odierni come condottiero di un piccolo esercito difensivo." La guerriglia organizzata, che tanta fortuna avrà nel ventesimo secolo, fu sperimentata con impressionante successo nell'Albania del quindicesimo.

Le linee di comunicazione dell'esercito ottomano erano del tutto insicure. Per garantire la sicurezza dei convogli venivano impiegati sempre più uomini, che venivano di guisa tolti all'assedio. Eppure non bastavano. Allora, per sostenersi, l'esercito turco si abbandonava a saccheggi, ma se il gruppo che partiva a procurar viveri non era abbastanza forte era spacciato. Scanderbeg sconfisse nell'ordine Ibrahim bey e Firuz pascià che gli furono mandati contro, uccidendo in due grandi imboscate quasi 8 mila turchi.

Alla fine di luglio erano morti 20 mila turchi e Murad II era pronto a levare l'assedio, quando un traditore consegnò la fortezza ai turchi. Le versioni sono discordi sulla modalità. La prima, quella più romanzata, dice che questi buttò un cane morto nell'unico pozzo del castello. Essendo la guarnigione di questa composta in maggioranza da bulgari ortodossi, questi, superstiziosamente, si rifiutarono di bere.

La guarnigione era, come sopra ho detto, composta da Dibresi di Dibra superiore, il qual paese quantunque soggetto a Scander-begh non era però abitato da gente albanese come la Dibra inferiore, ma da Bulgari, o sia da Serviani [Slavi]. Professava bensi questo popolo la Religione Cristiana, ma corretta dall'eresia, e non conforme ai dogmi della Chiesa Romana ch'erano creduti dagli Albanesi, e seguia con una specie di fascino molte superstizioni. Una delle quali era di non osare giammai bere, nè mangiare di tutto ciò che avesse toccato corpo morto di uomo, o di bestia, immaginandosi che quella cosa lor lasciasse una corruzione dentro il corpo che passasse insino all'anima (Biemmi).

La seconda versione più prosaica e razionale dice che il traditore indicò ai turchi il condotto dell'acqua che alimentava l'unico pozzo del castello, che fu prontamente tagliato. L'archimandrita Pietro Perlati mise ai voti la proposta di arrendersi. Il 31 luglio gli assediati uscivano e gli assedianti entravano a Sfetigrad. La porta dell'Albania era aperta. D'ora in poi nessuno avrebbe fermato le invasioni al confine, ma le battaglie si sarebbero combattute all'interno del paese.
La prospettiva non allettava il Castriota. Raccolse in fretta un esercito e chiese aiuto ai principi della Lega e agli alleati. Si misero al suo servizio molti volontari francesi, tedeschi, dalmati e italiani, che portarono anche della piccola artiglieria e armi da fuoco, di cui si era sprovvisti in Albania. Dai principi della Lega arrivarono 4 mila uomini e diecimila ducati; Alfonso di Napoli mandò 1200 uomini e un gran numero di provviste e armi sotto il comando di Giliberto Ortofano. Il messo mandato a chiedere aiuto al successore di Eugenio IV, Nicola V (1447-1455), tornò con tante promesse, lodi e benedizioni apostoliche. Il 25 di settembre 1449 Scanderbeg pose l'assedio a Sfetigrad, ma i suoi uomini non abituati ad assediare si logorarono per un mese e Scanderbeg levò le tende il 26 ottobre.

Agli albori del 1450 il principe perse anche la fortezza di Berati (Perati) sul fiume Vojussa, cui si riferirà cinque secoli dopo il canto degli alpini della Julia. Berati apparteneva a Teodor Korona Musacchio, membro della Lega, il quale, essendo vecchio e senza eredi, lasciò i suoi domini in testamento al Castriota. Abbiamo visto con Danja che la cosa non era inusuale. Mentre si trovava sul letto di morte mandò a dire a Scanderbeg di andare a prendere possesso di Berati e questi spedì un contingente di 600 uomini, i quali si stabilirono nel forte e la notte andarono a dormire tranquillamente, senza curarsi dell'esercito turco che s'intrufolò con un colpo di mano dentro le mura approfittando del buio e prese possesso del castello. I seicento vennero fatti prigionieri e il vecchio Teodor Korona fu impiccato.

Se tutto questo non bastasse, mentre si attendeva il colpo di grazia del sultano contro Kruja, quasi tutti gli alleati e i principi della Lega lo abbandonarono. Arianit Comneno era risentito perché il Castriota si rifiutava di chiedere sua figlia in sposa come aveva promesso e gli altri erano sobillati da Venezia, che aveva stipulato la pace con il sultano e che avrebbe avuto tutto da guadagnare da una guerra all'ultimo sangue tra Scanderbeg e i turchi, commerciando con entrambi nelle materie necessarie alla guerra. I piccoli signori confinanti il principato d'Albania la Serenissima li voleva in pace per garantire in quelle terre di collegamento il passaggio dei propri mercanti. L'Aragonese era impegnato in Spagna e non poteva concedere aiuti. L'arcivescovo di Antivari, mandato a Roma dal Papa, tornò ancora con promesse, benedizioni e l'assicurazione che Dio non avrebbe mai abbandonato il suo campione. Soltanto i Dukagjini mandarono qualche soldato.
Andava aggiunto a tutto questo che i soldati non saccheggiavano campi nemici da tempo e chiedevano di essere pagati.
Inoltre il panico si diffuse nella popolazione del principato. Sogni e incubi che premonivano disastri ed eventi sopranaturali infausti erano sulla bocca di tutti.

Questi tre problemi andavano risolti. Innanzitutto il denaro necessario al mantenimento di una esercito venne dai prestiti di mercanti ragusiani e napoletani, visto che i veneziani non si erano fidati a prestare soldi con un così alto rischio. Si erano fatti garanti il Papa e Alfonso d'Aragona.
In secondo luogo un'assemblea di soldati, contadini e preti venne raccolta nei campi intorno a Kruja. Scanderbeg narrò di aver sognato San Giorgio, protettore d'Albania, che gli donava una spada e lo esortava a difendere la sua terra e la cristianità. La predicazione del Vescovo di Drisht e futuro arcivescovo di Durazzo, Paolo Angelo, e di altri prelati fatta dopo la messa convinse coloro che si erano radunati a Kruja non solo che il pericolo poteva essere sostenuto, ma anche che la guerra era praticamente vinta. Il consiglio di questa messinscena era stato di Paolo Angelo. E' probabilissimo che il sogno una sorta di pia fraus, ma nessuno storico critico, che meriti tale nome, può ridere del fatto che la gente credesse che Scanderbeg avesse veramente sognato San Giorgio.

Era risaputo che la sua fede era profonda e lo ammettono tutti gli storici. Era la caratteristica della sua famiglia, basti ricordare i documenti di donazione di villaggi e terre da parte di Giovanni Castriota a monasteri e abbazie; lo stesso si riconvertì al cattolicesimo prima di morire, volendo morire in grazia di Dio e abiurando l'islamismo che aveva dovuto abbracciare per necessità; il fratello era andato a chiudersi nel monastero del monte Sinai ed egli stesso da anni continuava a rinunciare ad una comoda tregua col sultano in nome del ruolo di difensore della fede che aveva assunto sotto benedizione papale. Nel 1450 era stato abbandonato quasi da tutti, con un esercito e una popolazione demoralizzata. Non aveva altra scelta che chiedere a Dio qualcosa di più del solito.

La mancanza di uomini non era in ultima analisi un problema risolvibile per la semplice ragione che, per quanto si fosse messa in moto unitamente la buona volontà di Scanderbeg, dei principi della Lega, della Serenissima, di Ragusa, l'Aragonese, Hunyadi e gli altri, non si sarebbe mai raggiunto un numero sufficiente di uomini da sfidare in campo aperto i centomila veterani turchi che si sarebbero riversati su Kruja. Così, Scanderbeg decise che la cosa migliore era applicare di nuovo la sua tecnica preferita di guerriglia. Lasciò Vrana Konti con un forte contingente di quattromila uomini krujani a difesa della città, coadiuvati da artiglieri franchi volontari, tedeschi e un gruppo di inglesi comandati da un gentiluomo che l'Antivarino ci presenta come John of Newport, con una riserva di vettovaglie per trenta mesi. Gran parte della guarnigione era composta da uomini ben armati anche con armi da fuoco. Egli stesso, con 8 mila cavalieri veterani si diresse verso i monti intorno alla città, in mezzo a quei sentieri che conoscevano solo le capre e le aquile e dai quali poteva colpire ogni strada, ogni campo, ogni pattuglia, ogni distaccamento, ogni carro che si fosse avventurato senza avere una scorta di almeno 15 mila uomini.

Amurathes convocans Asiae Europae exercitus universos (Laonicus Chalcocondylas) si presentò d'avanti a Kruja. L'esercito non era minore di quello che avrebbe espugnato Costantinopoli tre anni dopo. L'intero corpo scelto dei giannizzeri era lì. C'erano cannoni portati da Adrianopoli e abbastanza metallo per fonderne altri sul posto. Questo lavoro tenne impegnati gli assedianti per due settimane. Alcuni di questi lanciavano palle da 600 kg e altri da 200.
La proposta di resa fu con sdegno respinta da Vrana Konti, che si permise di aggiungere, a detta di Barleti, che a Kruja non c'erano bulgari che temessero i cani morti.

Aperta dopo qualche giorno una breccia nelle mura, Murad II ordinò una carica generale che fu respinta con enormi perdite. Mucchi di cadaveri e di agonizzanti avrebbero con il solito olezzo nefando i dintorni del castello per mesi. Di attacchi se ne ripeterono moltissimi e furono sempre respinti. Nel frattempo Scanderbeg con i suoi 8 mila continuava a infastidire a tal punto il Sultano da portare questi quasi alla follia. Gli albanesi ebbero il coraggio di fare una improvvisa incursione nel campo nemico seminando morte, panico e distruzione. Cogliendo i turchi di sorpresa, riuscirono a bruciare molte tende e si avvicinarono a quella del sultano in più occasioni. Fu difficile per il principe trattenere i suoi. Come i Scots Greys e i Blues a Waterloo, le cariche degli imponenti montanari erano dei fuochi che bruciavano a fondo, ma che non erano facili da spengere. Molti cristiani morirono e per il piccolo esercito del Castriota le perdite, anche se esigue, erano pesanti. Egli stesso si trovò in mezzo a una turba di giannizzeri e solo a tremende sciabolate riuscì a divincolarsi e a fuggire verso le montagne.

Per i turchi divenne un'ossessione. Semper presens erat, ubicumque eius opera desiderabatur… cum regii quidam ascenderent montem. Scenderes eos agressus est, praelibaturque, opera memorabilia edens… Quamvis eum debellare occepis sit, vincere nequivit. (Laonicus Chalcocondylas). E lo stesso era l'effetto della baldanza degli assediati: Nec tamen (Turcae) superare potuerunt oppidanos, qui praeter spem fortissime pugnabant. (Laonicus…). Bisogna anche considerare che lo storico bizantino è, come tutta l'intellighenzia bizantina, cioè greca, ferocemente ostile agli albanesi, quindi le sue lodi valgono tanto.

Il comportamento dei mercanti veneziani fu vergognoso e infido. Non solo rifornivano i turchi, ma quando questi, stanchi di vedersi prendere quanto avevano comprato dagli albanesi nelle imboscate, pretesero che i Veneziani portassero tutto al loro accampamento, i mercanti della Serenissima non esitarono a portare le merci ai turchi ai piedi della rocca di Kruja. Pensavano che Scanderbeg non avrebbe mai permesso che un cittadino veneziano venisse attaccato per non trovarsi in guerra anche con la Serenissima, ma questi non ci pensò due volte. Gli albanesi, inferociti da tale comportamento, non fecero distinzioni e la guerra fu sventata solo grazie all'opera diplomatica indefessa dell'arcivescovo di Durazzo, il cui nome ci è ignoto, ma che Biemmi ci dice essere amico del Castriota. Egli riuscì, tra l'altro, a impedire ulteriori rifornimenti al campo turco.

In una disperata carica e nella successiva sortita il 25 giugno i turchi ebbero circa 8 mila uomini. Questa carneficina durò cinque mesi, senza speranza di vittoria per Murad II. Quando i tamburi della pioggia annunciarono l'arrivo della cattiva stagione, dopo aver tentato di comprare Vrana Konti, aver proposto a Scanderbeg di riconoscerlo re d'Albania con solamente l'obbligo di un piccolo tributo e aver ricevuto in entrambi i casi un rifiuto, levò le tende il 26 ottobre e giunse ad Adrianopoli a gennaio, dove morì poco dopo.
La notizia della vittoria si diffuse come un lampo in Europa. Papa Nicola V, il re d'Ungheria, il duca di Borgogna, ma soprattutto Alfonso di Napoli versarono oro a piene mani nelle casse del principe albanese con la speranza di garantirselo come alleato e difensore.
Come dice Fallmerayer, con la sconfitta di Murad II finì il primo atto della grande tragedia albanese.

II parte

A Murad II succedette Mehmed II, il più terribile dei discendenti di Osman. Fu lui ad inaugurare quella truce tradizione che vedeva i primogeniti del sultano uccidere o far uccidere i loro fratelli per evitare problemi di successione. Sognava di spazzare via il cristianesimo dalla faccia della terra e sapeva di averne i mezzi. Usando la solita tattica dei turchi basata sull'assioma secondo il quale, tagliando il capo, le membra muoiono da sé, si diede da fare a prendere Costantinopoli e Roma. E riuscì quasi a realizzare tutto il suo piano.

Il 26 aprile 1451 Scanderbeg sposò Andronica, figlia di Arianit Comneno. Il matrimonio fu alquanto sfortunato, perché il principe non avrebbe avuto un attimo di tempo, vista la mareggiata che gli si stava per rivolgere contro. Comunque, i primi due anni furono relativamente tranquilli, anche se la nuova famiglia del Castriota aveva posto le premesse per il tradimento dei suoi più fedeli compagni: Hamza Castriota, suo nipote, e Mosé di Dibra, il più valente dei suoi generali. Il primo sperava di ereditare i domini dei Castriota per diritto di sangue e per il valore e il carisma che aveva. Aveva indubbiamente le qualità militari e la saggezza politica per essere un secondo Scanderbeg. Era anche molto amato dai suoi uomini. Dei Castriota aveva ereditato tutto, tranne la bellezza fisica. L'Antivarino c'è lo descrive come piccolo di statura, curvo, occhi piccoli e neri mai fermi su un dato oggetto. Era nato da madre turca e ne aveva ereditato le caratteristiche fisiche. Gli mancava forse la stessa fede e la stessa lealtà ai principi che caratterizzavano lo zio.

Mosé Golem (in slavo significa "il grande", ma è più probabile che il nome derivi da un suo avo chiamato Guglielmo, a detta di Fallmerayer) Thopia, era di quella famiglia di feudatari dei Balsha e di Stefano Dushan che avevano dominato Kruja per molti anni prima dei Castriota. Era imparentato con i Musacchio, i Comneno, gli Angeli e i Balsha. Nel suo sangue c'era tutta l'antica nobiltà del paese. Il Castriota era un semplice montanaro, che forse negli occhi di Mosé non riusciva a scrollarsi di dosso una certa goffaggine da parvenu. Era il migliore generale che Scanderbeg aveva. Era indispensabile a Scanderbeg come erano indispensabili a Napoleone Lannes, Oudinot, Ney, Murat, Suchet, Davout, Soult e Berthier insieme. Temerario fino alla follia - lo aveva dimostrato a Torvioll - sapeva fare tutto in battaglia. Era logico che sperasse di guidare la Lega alla morte del Castriota. Entrambi, Mosé e Hamza, i futuri traditori videro le loro speranze svanire con il matrimonio di Scanderbeg, che faceva presagire la nascita di un erede che avrebbe avuto le carte in regola per diventare primo re d'Albania. La fecondità dei Comneno e dei Castriota era indubbia, quindi non si poteva attendere un miracolo di natura.

Nel frattempo, mentre Mehmed II era impegnato in Anatolia e preparava la caduta di Costantinopoli, il Castriota, avendo per l'ennesima volta respinto le proposte di pace del sultano, volle portare la guerra in terra turca dopo aver conquistato Berati e Sfetigrad. Sottoposto il progetto alla Lega nessuno lo volle appoggiare, nonostante l'insistenza dell'Aragonese. Gli albanesi non sopportavano una guerra logorante da assedianti e non la sapevano fare. Il territorio turco non era territorio albanese e andava bene solo per essere saccheggiato occasionalmente, ma non per essere conquistato. L'esempio di Varna era ancora sotto gli occhi di tutti. Si credeva che stando buoni il sultano li avrebbe lasciati in pace, vista anche la rovinosa sconfitta ai piedi di Kruja che aveva subito. Inutili le insistenze di Scanderbeg. Il rifiuto fu netto, ma non unanime, e generò rivalità. Con i fondi di Alfonso di Napoli il principe riuscì a costruire due fortezze: Modriç, vicino a Sfetigrad, che dominava la pianura macedone e Rodon, vicino a Durazzo, sul mare, dove poter ritirarsi in caso di necessità con la moglie e la sua futura famiglia.

Mehmed II aveva capito che il pericolo alla frontiera albanese non era trascurabile e, non conoscendo i timori dei principi della Lega, si piegò al salasso di 25 mila uomini al comando di Tulip pascià da mandare contro il Castriota. Il comandante turco tentò una mossa mai tentata fino a quel momento dai generali turchi: distaccando 10 mila uomini al comando di Hamza pascià gli fece entrare da Sfetigrad. Lui, con i restanti 15 mila, entrò dal lago di Ocrida più a sud con l'intenzione di prendere il principe in una morsa. Avvertito dal cannone di Modriç e dal sistema di fuochi di segnalazione che aveva approntato, il Castriota trovò 14 mila uomini e mosse prima contro Hamza pascià dopo essersi infiltrato tra i due eserciti, attuando così, almeno nei principi, la tattica del centro mobile.
Approfittando della superiorità numerica, Scanderbeg sbaragliò i turchi in circa due ore, catturando il pascià, il suo campo e il suo entourage il 21 luglio 1452. Dopo aver fatto riposare i suoi uomini per circa altre due ore mosse contro Tulip pascià. Lo raggiunse il giorno dopo e lo distrusse con tutto l'esercito vicino al villaggio di Moçad. Barleti racconta come Mosé di Dibra risolse la questione di questa battaglia che si stava protraendo troppo per la stanchezza dei cristiani, caricando contro il centro dell'esercito nemico e tagliando in due con un fendente di propria mano il comandante turco. I turchi lasciarono sul campo circa 7 mila uomini morti, altrettanti prigionieri e feriti, le bandiere e gli accampamenti. Scanderbeg perse circa mille uomini.

A questo punto la certezza della propria potenza e della propria missione fece capire a Scanderbeg che ormai era il momento di farla finita con le separazioni all'interno della Lega. Soffiavano in questa direzione le insistenze del Papa. L'impegno del sultano a Costantinopoli era una manna dal cielo per l'organizzazione delle difese cattoliche nei Balcani. Nicola V era seriamente intenzionato a far finire le rivalità interne in Albania e ci riuscì, facendo riconciliare i Dukagjini con i Castriota, ancora in astio dopo la questione di Danja, dopo aver minacciato i primi di scomunica. Il concetto era chiaro: trono e altare avevano cose più importanti da fare che sottostare alle rivalità meschine tra piccoli feudatari montanari. Se volevano salvare almeno le apparenze dei loro privilegi in politica estera e le priorità tributarie e giudiziarie interne, dovevano sottostare al governo ufficiosamente assoluto del Castriota. Tutto questo senza considerare i fatto che questo era l'unico modo per salvare la propria anima. Ai principi rimaneva un solo modo per mettersi in mostra e guadagnare in prestigio: essere eccellenti combattenti agli ordini di Scanderbeg. Non più signori, ma feudatari dei Castriota nei fatti. Fu così che, grazie all'intervento dei messi papali, l'autorità di Scanderbeg e il denaro napoletano, la Lega non costituì un ostacolo dal 1452 in poi. Fu un semplice Consiglio di Guerra con qualche prerogativa in più. A sua volta il principe albanese si circondò di una pompa e di una magnificenza regale. Lui e i suoi generali più anziani, i veterani nobili, avrebbero indossato da quel momento in poi il mantello rosso porpora. Barleti li chiamerà da questo momento in poi porporati.

Nella primavera del 1453 toccò a Ibrahim Bey essere sconfitto a Scopje e avere 3 mila morti e migliaia di prigionieri e feriti. Egli stesso, vecchio compagno d'arme del Castriota, morì per mano di questi. Questa era finalmente una battaglia fuori dalle terre dei Castriota e rappresentava un buon auspicio, ma il 29 maggio 1453 cadde Costantinopoli dopo una strenua e eroica difesa.
Pieno di sé e al massimo del successo, Mehmed II dichiarò guerra a tutti i suoi vicini. Invio eserciti ai quattro angoli del suo impero. Contro l'Albania si preparava il saggio Issà Bey Evrenos, ma i preparativi di questo esercito andavano per le lunghe e il Castriota decise di approfittare dell'ultimo m
 
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